CAVALLERIA A TRIESTE, TRA NOSTALGIA ED UN PO’ DI DELUSIONE
Trieste ti accoglie con l’eleganza delle sue piazze e delle sue strade di città mitteleuropea. Pur essendo venerdì c’è aria di festa e benché ti trovi al centro, sul lungo mare ove si aprono i grandi palazzi del potere amministrativo ed economico, nonché gli alberghi più pretenziosi, il passeggio e la tenuta di chi lo pratica ti rimanda alle località balneari che sei solito frequentare d’estate per vacanza.
È la prima volta che giungo a Trieste, fatto salvo il tempo di quasi cinquant’anni prima quando, ancora giovane subalterno, vi giungevo da Palmanova, armato fino ai denti, che era già quasi buio e tiravo subito dritto per il confine da pattugliare, in quella atmosfera ancora ostile che tante ferite aveva arrecato alla città solo pochi anni prima. È la prima volta, quindi, che ci arrivo come visitatore, con l’entusiasmo di chi ha ammantato di romanticismo il nome di Trieste, sinonimo di eroismo patriottico, di sentita italianità, di tricolori che garriscono liberamente al sole, si che ti sembra di sentire risuonare nell’aria le note: Oh Italia, oh Italia del mio cuore, Tu ci vieni a liberar... .
Mi ci porta il 44° Raduno dell’Associazione Nazionale Arma di Cavalleria le cui manifestazioni sono già cominciate da qualche ora e che continueranno ancora nei due giorni a seguire, concludendosi domenica con la sfilata dei Cavalieri in Piazza Unità d’Italia. S’è voluta Trieste ricorrendo il centenario della Grande Guerra che, insieme con le immani stragi, gli indicibili sacrifici e l’oltre milione di morti tra civili e militari, porterà all’Italia anche questa città, riunita così finalmente alla madrepatria.
La mia camera al Savoy Excelsior non è ancora pronta, per cui approfitto per aggirarmi senza meta, e naturalmente finisco a Piazza Unità d’Italia, storicamente il luogo d’incontro della città che conta e dove si sta montando la tribuna per la sfilata di domenica. Mi siedo al Caffè degli Specchi, ordino un nero, loro, i Triestini, lo chiamano così l’espresso. Faccio amicizia con una coppia di mezza età del tavolo vicino e si arriva a parlare inevitabilmente di Cavalleria:
- Ma esistono ancora i Cavalieri? - chiese tra l’ironico e l’incuriosito la mia nuova amica.
È la domanda più ricorrente oggi che, per vedere un cavallo, devi quasi spingerti fino allo zoo.
- Vede signora, la Cavalleria non morirà mai... - inizio, infervorandomi - ... perché la Cavalleria è uno stile di vita, un modo di interpretare la propria esistenza, che affonda le radici in un millenario codice d’onore non scritto, agevolmente riassunto nel motto che non è raro trovare sui muri delle nostre caserme, vere e proprie scuole di formazione a tale stile: “Mon âme à Dieu, Ma vie au Roi, Mon coeur aux dames; l’Honneur pour moi.”
Mutati i tempi, venuti meno l’usbergo e lo sperone d’oro, nulla intacca questo spirito, neppure lo scorrere dei millenni, poiché in tali ideali si riconosce la solidale continuità che unisce quei cavalieri antichi a quelli odierni, sicché ancor oggi nessuno può chiamarsi Cavaliere se non pratica quelle stesse virtù; se - sfrondate le parole - non è un uomo, un soldato ed un cittadino esemplare.
L’Arma di Cavalleria educa da sempre i suoi figli nel culto di queste virtù, forgiandoli perché in guerra essi siano la punta di diamante degli eserciti della Patria e, nel pericolo, l’ultima risorsa: come sui campi di Montebello che aprirono la strada al Risorgimento italiano o nell’epiche cariche di Pozzuolo del Friuli quando, lanciati al galoppo, con abnegazione e senza ripensamenti, in pochi contro molti, i cavalieri furono di esempio al mondo, impressionando il nemico e rimanendo di riferimento per la nazione nei suoi momenti più bui. Né da meno furono i cavalieri che caricarono a cavallo nelle gelide steppe russe, o sugli infuocati mezzi blindo-corazzati nei deserti africani nel corso dell’ultima guerra.
Oggi, nell’epoca dell’informatica, della globalizzazione, delle crisi che contrappongono il Nord del mondo all’Est emergente ed al Sud affamato, tante cose sono cambiate e continuano a mutare con una velocità impressionante. In tale quadro la Cavalleria si adegua, come ha sempre saputo fare nel corso dei secoli: essa s’è arricchita della componente carri, erede delle formidabili tradizioni nate nei deserti africani della 2^ Guerra Mondiale, nonché della componente paracadutista che ne fa un’arma completa, poliedrica, in grado di intervenire, oggi come un tempo, in qualunque scenario e contro qualunque sfida si prospetti.
Per i Cavalieri non si tratta di essere i migliori ma, se possibile, anche di più, perché - nel condividere gelosamente quei profondi convincimenti che ti portano a vivere l’uniforme come un privilegio, nonché il credere fermamente in ciò che si fa - sarà la passione che ci metti a farlo che ti farà risultare differente dagli altri. Tale spirito che rimane la prima e principale forza dell’Arma di Cavalleria, viene gelosamente protetto e tramandato da coloro che, sebbene non più in servizio, continuano a riconoscersi nell’Associazione, animando le sue Sezioni sparse in ogni dove nella Penisola e riunendosi in preghiera nel Tempio Sacrario dell’Arma di Cavalleria.
Tale valorizzazione del patrimonio morale, umano e materiale è perseguibile esclusivamente attraverso un’imprescindibile osmosi e solidarietà tra le varie anime della cavalleria: la cavalleria di linea, la cavalleria carristi, la “cavalleria paracadutisti” ed infine, ma non ultimo, lo spirito associazionistico.
Tocca a noi, Cavalieri di oggi, in servizio o in congedo, salvaguardare cotanto patrimonio di successi, tradizioni e grandezza in un mondo in cui, all’odore delle scuderie e al malinconico ricordo dei reparti a cavallo, s’è sostituito l’assordante rumore dei moderni mezzi da combattimento.
Comincia a far sera quando lascio il bar di Piazza Unità d’Italia per tornare in albergo e non so se sono riuscito a trasmettere il fuoco che mi anima ai cortesi interlocutori con i quali mi sono intrattenuto. Forse no, poiché domenica in questa stessa piazza, noi eravamo in tanti, sicuramente più numerosi dei Triestini che sono accorsi a festeggiarci.
Ma tant’è... : so bene ormai quanto poco interessino le cose della Patria oggi alla gente e Trieste, ahimé, non ha fatto eccezione..