LA CAVALLERIA GARIBALDINA
Gli anni dal 1815 al 1870 furono caratterizzati, come è noto, da un generale decadimento dell'arte militare. In particolare la cavalleria fu completamente negletta dalla restaurazione. Dopo la rivalutazione napoleonica che aveva fatto dell'arma a cavallo quella della decisione e dei grandi inseguimenti strategici per un esemplare sfruttamento del successo, la cavalleria divenne un’arma statica. Essa mantenne inalterato il suo carattere di arma da battaglia ma subì una sensibile menomazione delle sue tradizionali qualità combattive: la capacità manovriera, lo spirito aggressivo, qualità che solo la guerra può sviluppare. L'istruzione a cavallo si ridusse nel chiuso dei maneggi o, tutt'al più, in piazza d'armi per eseguire complicate evoluzioni. L'arma conobbe un periodo di decadenza e nelle guerre dell'epoca non venne mai usata secondo i classici criteri d'impiego dell'arma a cavallo.
In questo panorama, così poco lusinghiero per un'arma di brillanti tradizioni come la cavalleria, si distinse, quale cospicua eccezione, la cavalleria garibaldina. Garibaldi, e non sarebbe neanche più il caso di ricordarlo, fu un grande uomo di guerra e questa sua dote si manifestò anche nell'impiego della cavalleria. Della guerra a cavallo aveva acquistato larga esperienza nelle campagne americane, una esperienza che, aggiuntasi alle sue innate capacità militari, ne aveva fatto uno dei più brillanti comandanti di cavalleria del secolo scorso. Ciò appare indiscutibile sol che si considerino le sue campagne in Italia dal 1849 al 1866. In un terreno così diverso da quello americano e con una cavalleria sempre piuttosto esigua, fu geniale nell'impiego dell'arma.
Durante la campagna in Lombardia nell'agosto del 1848 ebbe ai suoi ordini un reparto di cavalleria così modesto da non avere alcuna rilevanza operativa. Ebbe invece un reparto di cavalleria quando comandava quella “Legione Garibaldi" divenuta poi prima Legione Italiana, al servizio della Repubblica Romana dal dicembre del 1848. La cavalleria della "Legione" era costituita da un reparto scelto di 45 uomini denominato "Lancieri della
Morte" e comandato da Angelo Masina, che aveva già dato bella prova di sé nella guerra contro gli Austriaci. Il reparto aveva già avuto varie denominazioni e non si sa esattamente quando prese il nome di "Lancieri della Morte". Forse nei primi giorni dell'aprile del 1849 quando il Masina pubblicò il seguente ordine del giorno nel quale è prescritto, con curiosa espressione, di far porre sui lati dei portamantelli il distintivo della morte. Ecco l'ordine del giorno:
1° La sveglia sarà suonata alle ore cinque del mattino e all'istante i Lancieri tutti si alzeranno e poscia porranno le selle ai loro cavalli, stando pronti a montare a cavallo dietro ordine superiore, e così non si leverà sella altroché per ordine del capitano.
2° Dopo levato sella si governeranno i cavalli: poscia polizia alle bardature ed armamento.
3° Col giorno di domani, festa di Pasqua, i Lancieri si vestiranno in gran parata.
4° Chi non ha portato i portamantelli in camera del capitano, tosto li portino onde metterci le morti lateralmente.
5° Verrà comandato ogni giorno dal sottotenente Miller un Lanciere onde sia presente, unitamente al Foriere, alla verifica del peso tanto del fieno che di biada.
6° Sarà espressamente proibito dormire fuori di caserma.
7° Coll’appello del mezzogiorno tutti, escluso nessuno, vi si troveranno onde votare a favore delli otto Brigadieri che mancano per formare lo squadrone accordato dalla Repubblica.
Nel maggio del 1849 i lancieri di Masina raggiunsero il numero di cento, un bel reparto che si ornava anche di una elegante uniforme: “Dolman” turchino chiaro con alamari neri, pantaloni rossi, shakò rosso con fascia nera recante un fregio costituito da due tibie incrociate ed un teschio in metallo dorato su coccarda tricolore, il tutto sovrastato da un pennacchietto di crini neri su nappina rossa, visiera dritta e sottogola di metallo dorato. Buffetteria e bardatura nere. Nella grande uniforme, lo shakò veniva da taluni sostituito con un fez rosso; in seguito fu aggiunto all’uniforme un mantello bianco. L’armamento consisteva in una lancia con banderuola rossa e in due pistole.
L’uniforme sopradetta subì però un graduale cambiamento poiché anche i lancieri vollero adottare la tunica rossa, come i legionari di fanteria.
I lancieri di Masina si batterono bravamente il 30 aprile alle porte di Roma contro i francesi, rompendoli e volgendoli in ritirata. Era il momento di sfruttare il successo lanciando all’inseguimento la esigua ma combattiva cavalleria della Legione. Garibaldi lo capiva ma fu fermato dall’ordine del Governo di lasciare ritirare indisturbati i francesi. Fu persa una grande occasione, tale forse da rovesciare le sorti della campagna. Sullo slancio della vittoria, la cavalleria garibaldina poteva tagliare la ritirata ai francesi, poteva correre la campagna sollevandola contro l’occupante, poteva attivare una difesa dinamica con incursioni, attacchi, scorrerie, tecnica di combattimento consona al carattere ed alle possibilità dell’arma.
I lancieri di Masina furono poi presenti ai combattimenti di Palestrina il 5 maggio e di Velletri il 9 e il 19 dello stesso mese. Il 5 e il 9 maggio non furono quasi impiegati, il 19 furono caricati e volti in fuga dai Cacciatori a cavallo borbonici. Il 3 giugno, quando si pronunciò l’attacco francese, occorreva riprendere l’importante posizione del Casino dei Quattro Venti; Garibaldi vi lanciò, con altre truppe, i Lancieri della Morte. Lo stesso comandante si pose alla testa del reparto, guidando la carica e spingendosi al galoppo fin sulle scalinate della villa, travolgendo e sciabolando gli avversari. La splendida carica non poté tuttavia essere sostenuta dalla fanteria e dall’artiglieria così che i Lancieri furono costretti a ritirarsi sotto un intenso fuoco nemico. Angelo Masina restò sul terreno con molti dei suoi; alla sua memoria la Repubblica Romana conferì una medaglia d'oro "al valore ed al patriottismo". La Repubblica Romana era ormai però alla sua fine.
Il 2 luglio Garibaldi lasciò Roma con la sua Legione e qualche altro reparto per un totale di 4.000 uomini, dopo aver rivolto il celebre appello in cui prometteva a chi l'avrebbe seguito fame, sete, lotta e morte. Al primitivo disegno di Garibaldi di sollevare la provincia per continuare la lotta contro i francesi, successe il divisamento di accorrere a Venezia ancora in armi. Pertanto, la direttrice di marcia fu verso il nord.
La cavalleria garibaldina, circa 800 cavalli, era ben montata, ma la bardatura lasciava a desiderare, cosi come il vestiario: non aveva alcuna nozione della manovra d'insieme cosicché malamente avrebbe tenuto I'urto di una cavalleria regolare in campo aperto. Gli uomini erano però in media buoni cavalieri e arditi e particolarmente addestrati al servizio di esplorazione e requisizione. I Lancieri Masina che erano fra i più capaci, fornivano quasi sempre la scorta al Generale ed allo Stato Maggiore.
Alla caccia delle forze di Garibaldi campeggiavano 40.000 francesi, 20.000 borbonici, 9.000 spagnoli, 15.000 austriaci e 2.000 toscani. Durante questa ritirata condotta in situazioni spesso drammatiche, rifulsero le doti di Garibaldi quale comandante di cavalleria. In marcia, per esempio, distaccava pattuglie di cavalleria 4 o 5 km. avanti I'avanguardia; ove possibile, altre pattuglie di cavalieri fiancheggiano la marcia su strade parallele; in alcune circostanze, le pattuglie di cavalleria incaricate della osservazione e della sicurezza si spinsero fino a 15 km. dalle proprie fanterie che si muovevano protette dallo schermo della cavalleria che osservava senza essere osservata. Un perfetto impiego dell'arma a cavallo in quell'importantissimo servizio dell'osservazione, di cui era cosi sollecito il grande Napoleone, che diceva essere le pattuglie di cavalleria "gli occhi dell'armata".
Con abili stratagemmi, marce notturne, false informazioni propalate ad arte, Garibaldi riuscì a giocare gli avversari. La marcia si snodava sempre fra terreni aspri, fra popolazioni ora favorevoli, ora, ed era la maggioranza dei casi, ostili, con rifornimenti aleatori. Non lasciò mai inattiva la cavalleria; talvolta, anzi, le richiese sforzi supplementari come I'8 luglio, quando giunto con le truppe a Terni, staccava pattuglie di cavalleria a Todi, a 30 km., a Colle di Labro, 15 km., a Spoleto, 20 km., Borghetto sul Tevere,30 km. e ad Acquasparta, 15 km. Protetto da questo esteso raggio di vigilanza, Garibaldi attese tranquillo a riordinare gli uomini.
Cosi anche durante la sosta ad Arezzo il 23 luglio, le pattuglie di cavalleria sorvegliarono tutta la zona circostante per un raggio di 20 km. e, alla partenza dalla città toscana, una ricognizione di cavalleria si spinse fino a Borgo San Lorenzo a circa 30 km. da Arezzo.
In Toscana la situazione delle forze garibaldine si fece insostenibile. Diserzioni e fame avevano ridotto la truppa a poco più di 1.500 uomini. Urgeva una decisione. Garibaldi prese il partito di scendere nella valle del Metauro; sostò a S. Angelo in Vado che abbandonò il 29 luglio, lasciandovi come retroguardia 50 cavalli al comando di Luigi Migliazzo, un comandante di cavalleria che aveva dato prova di essere un intelligente ed audace corridore. Egli consentì ai suoi uomini di sparpagliarsi nel paese per rifocillarsi, calcolando di non essere seguito dappresso dagli austriaci inseguitori. Egli stesso lasciò il cavallo per procurarsi qualche ristoro, ma di lì a poco lo scalpitare di numerosa cavalleria lo trasse dall’errore. Erano le sue vedette che inseguite da vicino da uno squadrone di ussari entravano al galoppo dando l’allarmi. I cavalieri garibaldini opposero qua e là qualche resistenza ma molti finirono prigionieri; solo il Migliazzo con pochi altri riuscì a fatica ad aprirsi un varco fra i nemici e a raggiungere il grosso. Garibaldi lo accolse severamente, facendogli grave colpa di non avere barricati gli accessi al paese prima di fare rompere le righe ai suoi uomini e per quel giorno gli tolse il comando.
La colonna garibaldina era frattanto sempre più stretta dagli inseguitori; complessivamente Garibaldi aveva alle calcagna 24 battaglioni, 3 batterie e 4 squadroni. Egli sentiva che con i suoi uomini, ormai pochi e malridotti, in condizioni morali e logistiche disastrose, non poteva più proseguire. Decise allora di riparare con i suoi nel territorio della Repubblica di San Marino ove furono deposte le armi. Il 31 luglio Garibaldi sciolse i reparti e dichiarò conclusa la guerra romana per la liberazione d’Italia.
Garibaldi tornò a combattere per l’Italia dieci anni dopo, nel 1859 per la seconda guerra di indipendenza. Ebbe il comando dei Corpi Volontari, denominati “Cacciatori delle Alpi” e il grado di Maggior Generale nell’esercito sardo e si dedicò con l’entusiasmo di sempre all’organizzazione dei suoi reparti. Opera non facile perché, pur se entro certi limiti, erano favorevoli al Generale il re e Cavour, non mancava nelle alte gerarchie militari qualche avversione verso colui che era un generale sì, ma anche un rivoluzionario che nel 1834 era stato condannato a morte da Carlo Alberto. Questa diffidenza verso Garibaldi e i suoi uomini si manifestò anche nell’uniforme imposta ai Cacciatori delle Alpi. Scomparsa la camicia rossa, i volontari vestivano di grigio e gli ufficiali in turchino scuro.
Compito di questo Corpo di volontari, forte di circa 3.000 uomini, era di operare sulla sinistra dell’esercito franco-piemontese nella zona fra il Lago Maggiore e il Lago di Como. I “Cacciatori” avevano anche una loro cavalleria; cinquanta uomini al comando del milanese Francesco Simonetta che già si era distinto nel ’48 e nel ’49. L’uniforme consisteva in un “dolman” grigio con alamari neri; pantaloni anch’essi grigi; nere le fiamme, i paramani e le pistagne, grigio il berretto. Il reparto prese il nome di “Guide”, tradizionale, a partire dal XVIII secolo, per i reparti a cavallo addetti ai servizi di scorta e sicurezza dei comandi, di corriere, di esplorazione e così via. La bardatura, le armi, cioè sciabola e pistole, appartenevano allo Stato ed erano dei modelli di quelle prescritte per la cavalleria leggera piemontese. I cavalli erano d proprietà dei volontari ma costituivano un materiale eterogeneo per età, razza, statura e provenienza; i cavalieri per la maggior parte ignari di equitazione militare ed anche spesso di tutto quell’insieme di operazioni che va sotto il nome di “governo del cavallo”. Nonostante queste lacune la esigua cavalleria garibaldina diede eccellenti prove, impiegata sempre dal Generale con audacia e sagacia.
Nella prima fase delle operazioni Garibaldi affidò alle sue "Guide" compiti di esplorazione e di sicurezza che furono pienamente svolti, nonostante avessero di fronte quella che allora veniva ritenuta la migliore cavalleria d'Europa. Così il 15 maggio Garibaldi, da Vercelli, lanciò le "Guide" ad esplorare fino alla Sesia ed esse tornarono due giorni dopo con preziose informazioni. Autorizzato a proseguire su Biella, Garibaldi vi si portò il giorno 18 in ferrovia, preceduto dalle "Guide" che al suo arrivo trovò già disseminate in pattuglia a Cossato, Castelletto e Benna cosi da assicurarlo da una sorpresa sulla distanza di 15 km. Il giorno 19 inviò altre "Guide" a Rovasenda, Lenta e Ghemme di modo che la marcia da Biella a Gattinara compiuta dai Volontari il giorno 20 poté svolgersi in piena sicurezza. La stessa ora del 20, il Simonetta, raccolte le pattuglie di Castelletto e di Benna, galoppò sino a Romagnano, fece ricostruire dagli abitanti il ponte sulla Sesia distrutto dagli austriaci e si portò a Borgomanero. Lasciatavi una pattuglia, altre ne spiccò rispettivamente a Fontaneto, Cressa, Bogogno ed egli stesso andò a stabilirsi a Gattico, con le ultime "Guide" rimastegli. Si era così predisposto un efficace e razionale dispositivo per coprire la marcia su Borgomanero che la Brigata Cacciatori delle Alpi compì il giorno seguente.
I Volontari si apprestavano ad attraversare il Ticino per entrare in Lombardia e fu il Simonetta che predispose il passaggio del fiume a Sesto Calende nella notte fra il 22 e il 23 maggio, prodigandosi in una attività che richiedeva coraggio e prudenza. In questa occasione il comandante delle “Guide" si dimostrò un incomparabile ufficiale d'avanguardia.
Superato il Ticino, Garibaldi raccolse le "Guide" e le mandò ad esplorare verso sud, soprattutto verso Gallarate, di dove potevano provenire le offese maggiori . Fu là che venne mandato con quasi tutte le "Guide" il Simonetta il quale, appena giuntovi, staccò pattuglie a Mozzate, Busto Arsizio, Samarate, Vizzola. Alle 17 del 23 maggio, giunte notizie dal Simonetta che il nemico non compariva da alcuna delle strade sulle quali vigilavano le “Guide", Garibaldi ordinò la partenza e con marcia rapidissima alle 22 entrava in Varese.
Le "Guide" furono quindi spostate e da Busto Arsizio, Samarate e Vizzola poste a guardare le strade provenienti da Milano e da Como. Pertanto, la cavalleria di Garibaldi si spostò a Gallarate, Cairate, Tradate, Olgiate ed Albiolo, mentre da Sesto Calende, dove era rimasta, una pattuglia di "Guide" si spingeva fino a Somma Lombardo. Il settore di osservazione si stendeva così per un raggio di 20 km., in media, attorno a Varese, dal Ticino al confine svizzero, con un perimetro di 90 km. circa. Il servizio di avanscoperta della cavalleria fu preziosissimo nel segnalare la controffensiva austriaca movente da Sesto Calende e da Olgiate, consentendo a Garibaldi di fronteggiarla nel modo migliore. Egli cominciò col ridurre il raggio di osservazione a minore ampiezza, in modo da poter disporre una più fitta rete di pattuglie. Secondo le nuove disposizioni del Generale, Simonetta dispose le sue "Guide" ad Induno, Cantello, Malnate, Bizzozero, Gazzada e Casiago a poco più di 5 km. dagli avamposti di fanteria.
Nella notte dal 25 al 26 maggio, gli austriaci mossero da Olgiate in due colonne, delle quali la maggiore, costituita da 7 battaglioni, 8 pezzi di artiglieria ed uno squadrone, marciò per Malnate su Varese; l'altra, di un solo battaglione, per Albiolo, Cagnò e Cantello, si diresse ad Induno, cioè sulle retrovie di Garibaldi. Gli austriaci entrarono in Malnate e vi sorpresero la pattuglia di "Guide" rimastavi, così che poterono appressarsi non visti fin sotto Varese, ove però gli avamposti diedero subito l'allarmi.
Non è questa la sede per ricordare la gloriosa giornata di Varese; ricordiamo però come durante l'azione il Simonetta raccolte le "Guide" si spinse a battere la strada di lnduno, unica via di ritirata, senza incontrarvi il nemico, che pure avrebbe potuto e dovuto dirigervi la propria cavalleria.
Voltasi la sorte in favore dei garibaldini, le "Guide" si collocarono alla testa delle colonne inseguenti e il Simonetta raggiunse il ponte dell'Olona, catturando alcuni ussari ed entrando in Malnate ancora occupata dal nemico, riuscì a chiarire la direzione precisa della sua ritirata ed avvertire Garibaldi che si preparava una seconda resistenza a San Salvatore. Rinnovatosi in questa località il combattimento, le "Guide", in un momento critico, furono lanciate alla carica insieme a tutto lo stato maggiore di Garibaldi decidendo la vittoria. Gli austriaci in ritirata su Olgiate furono serrati dappresso dalle "Guide".
Il giorno dopo nel corso dell'inseguimento attivato da Garibaldi per sfruttare il successo, le "Guide" distaccarono pattuglie verso sud, ad Oltrona, Lurate e Castelnuovo; verso nord a Bironico, Camnago ed Albiate. Risultato delle manovre di Garibaldi fu la sconfitta subita a San Fermo dagli Austriaci che le "Guide" inseguirono fino a Monza.
Il 5 giugno dopo la battaglia di Magenta, Garibaldi spostò le sue truppe a Lecco. La fanteria vi si recò in battello, la cavalleria per via ordinaria. I Cacciatori delle Alpi l'8 giugno entrarono in Bergamo e subito il Generale distaccò due drappelli di "Guide" alla ricerca del nemico. Il primo drappello, comandato dal Simonetta, si spinse sulla strada di Treviglio sino ad Arcene, a 14 km. da Bergamo; lasciò sul posto una pattuglia, un'altra ne inviò per Cisarano a Bottiere sulla strada di Vaprio, i rimanenti cavalieri per Spirano si diressero a Cologno. Nei pressi di quel villaggio assalirono un convoglio scortato da una compagnia, poi superato il Serio a Malpaga, si spinsero a Martinengo, da dove volsero a sud sino a Romano. Siccome questo paese era presidiato dal nemico, il Simonetta tornò al nord, recandosi a passare la notte a Cologno.
Il secondo drappello di "Guide" condotto dal Camozzi, passato il Serio a Seriate, scese a sud verso Palazzolo sino a Cavernago: qui si ebbe notizia che nella stazione di Garlago stava fermo un treno. Immediatamente vi corse il Camozzi col suo reparto e lo catturò, ma poco dopo fu costretto ad abbandonare la preda per il sopraggiungere di un altro treno da Palazzolo, carico di truppa avversaria. Le "Guide" nel ritornare a Cavernago si scontrarono presso Bagnatico con un battaglione ungherese che, sconfitto a Seriate dai Cacciatori comandati dal Bronzetti, si ritirava su Palazzolo. Il Camozzi si pose all'inseguimento del nemico e con la sua presenza e il suonare a stormo delle campane dei paesi circostanti, obbligò il nemico ad una precipitosa fuga. A sera il drappello delle "Guide" si stabilì a Martinengo.
La mattina del 13 giugno i garibaldini entrarono in Brescia e la sera dello stesso giorno gli austriaci tentavano un ritorno offensivo, prontamente rintuzzato. In questa fazione si distinsero le "Guide" guadagnando il seguente elogio nell'ordine del giorno del 14: "Devo una parola di elogio ai nostri prodi Cacciatori a cavallo. Benché pochi e mancanti di organizzazione definitiva essi fanno un servizio importantissimo e già in varie circostanze hanno operato atti di valore che onorano gli italiani".
Dopo la battaglia di Castenedolo del 15 giugno i volontari garibaldini si portavano nelle valli alpine a nord di Brescia e Garibaldi non ebbe più occasione di dimostrare come sapesse brillantemente usare la sua cavalleria.
La guerra poco dopo finiva e Garibaldi che aveva ben presente anche e forse soprattutto la situazione dell'Italia centrale, si dimise dal suo grado di generale sardo ed accettò l'offerta del Governo toscano di assumere il comando di quell'esercito.
Come si sa, la Toscana, la Romagna, gli ex-ducati di Parma e Modena avevano costituito la Lega dell’Italia Centrale, con un esercito formato dai contingenti dei quattro Stati e comandati dal gen. Manfredo Fanti. Scopo della lega era di impedire che gli ex-regnanti di quegli stati tentassero con I'aiuto dello straniero di ritornare sui loro troni da dove li aveva cacciati la rivoluzione patriottica. Garibaldi ebbe il comando in seconda di queste forze con I'incarico specifico di comandare i reparti schierati lungo la Cattolica per impedire alle truppe del Papa di tornare nelle Romagne.
Nell'ottobre del 1859 Garibaldi chiede al Fanti di autorizzare la costituzione di uno squadrone "Guide" scrivendogli: "Essendo per giungere qua vari cavalli di proprietà del corpo delle guide già addette ai Cacciatori delle Alpi ed avendo di recente ricevuto delle pistole revolver, sarei a domandare alla S.V. Ill.ma l'autorizzazione di formare uno squadrone di guide, che monterei con tali cavalli ed armerei di tali pistole".
Le " Guide" furono il 16 ottobre costituite non su uno squadrone ma su un plotone, al comando del Missori. Garibaldi naturalmente si riservava di sottoporre a chi di ragione nomine e promozioni, quando I'organizzazione fosse condotta a termine. Ben poco sappiamo di questo plotone sceltissimo, se non che più tardi fu posto al comando del Simonetta, che aveva come sappiamo mirabilmente comandato lo squadrone "Guide" durante la campagna di Lombardia.
Il reparto comprendeva 42 uomini, oltre al comandante, un foriere, tre marescialli d'alloggio, cinque brigadieri; venti erano i cavalli di proprietà. Ebbe peraltro vita breve. Quando Garibaldi che vedeva l’impossibilità di realizzare i suoi disegni rivoluzionari, nel novembre del 1859 lasciò l'esercito della Lega, vi fu qualche malumore tra le "Guide" e ne fu stabilito lo scioglimento che fu attuato il 28 dello stesso mese. Secondo una Commissione nominata a questo scopo, i 20 cavalli erano vendibili al prezzo di L. 500, ma poiché il Simonetta ne chiedeva 600, sostenendo che tale somma gli era stata offerta da un colonnello di artiglieria ungherese di stanza a Piacenza, il Ministero della Guerra della Lega, calcolando che sarebbe stato necessario soddisfare di ogni loro competenza le "Guide" e mantenere i quadrupedi per tre giorni ancora, quanti cioè ne occorrevano perché lo stesso Simonetta potesse trattarne la vendita a Piacenza e considerando pure che alcuni cavalli "sebbene alquanto rovinati" erano costati "ai loro proprietari, giovani volontari e degni per la loro condizione sociale di qualche riguardo" una somma molto maggiore, troncò ogni indugio, offrendo 550 lire per ogni cavallo e stipulò il contratto per modo che, compresi gli effetti di selleria ed una vettura per i foraggi in ottimo stato, versò al Simonetta la somma di L. 14.370, lasciando inoltre alle "Guide" il pastrano, giusta gli ordini del gen. Fanti. Dei cavalli, 6 furono riconosciuti idonei per i Carabinieri e 14 furono assegnati alla cavalleria ed all'artiglieria.
L'iniziativa democratica che sembrava essersi esaurita con gli avvenimenti della fine del 1859, riprese l'anno seguente con la spedizione dei Mille. Essa partiva ricca di entusiasmo ma povera di mezzi, con poche armi e senza munizioni: inesistente la cavalleria. Per costituire questa Arma che, come abbiamo visto, Garibaldi sapeva perfettamente impiegare, furono requisiti a Marsala i cavalli da affidare alle "Guide" che si erano imbarcate a Quarto. Dopo di che la minuscola cavalleria garibaldina cominciò ad operare. La esiguità stessa del reparto non consentiva un impiego della cavalleria quale si ebbe nelle precedenti campagne del Generale; ciò non vuol dire che le “Guide” non fossero impegnate; esse furono presenti sul campo di battaglia di Calatafimi ed alla presa di Palermo, combattendo sempre a cavallo e il loro numero andava anche crescendo per l’accorrere di volontari. Non mancarono episodi di valore personale delle “Guide”, celeberrimo quello del loro comandante Missori che a Milazzo salvò la vita a Garibaldi. Lo stesso Missori al comando di un drappello di 200 uomini fra i quali non poche “Guide” nella notte sull’8 agosto 1860 passò lo Stretto di Messina per impadronirsi del forte di Villa San Giovanni. Fallita l’impresa il drappello si diede alla montagna ricongiungendosi il 20 agosto alle altre forze garibaldine nel frattempo sbarcate.
Dopo la liberazione di Napoli, la cavalleria garibaldina che aveva raggiunto la consistenza di circa 100 elementi, aumentò ancora. Si costituirono vari Corpi, come gli Ussari Ungheresi, i Dragoni Nazionali di Capitanata, le Guide Bixio, gli Ussari Italiani, i Cavalieri di Capua, gli Esploratori di Campo a Cavallo, i Cavalleggeri di Napoli, i Montanari del Vesuvio a Cavallo. I nomi erano tanti ed anche belli, alcuni altisonanti, ma la consistenza dei reparti, come appare dalla Carte Missori, era piuttosto esigua.
Nella battaglia del Volturno la cavalleria garibaldina non ebbe un impiego rilevante: soltanto 160 Ussari ungheresi “caricarono” a Caserta catturando alcuni cannoni al nemico. Un drappello di “Guide”, al diretto comando di Missori, scortava Garibaldi seguendolo in tutti i suoi spostamenti e garantendone l’incolumità e la sicurezza.
La conclusione dell’impresa garibaldina nell’Italia meridionale e la riunione di quelle provincie alla monarchia di Vittorio Emanuele II generò, come è noto, una quantità di problemi dei quali la questione dell’esercito meridionale non fu la meno importante.
(----)
Orbene, nell’ambito dei vari tentativi di dare una soluzione al problema dei volontari, l’11 aprile del 1862 vennero costituiti due squadroni “Guide” con lo stesso organico degli squadroni della cavalleria regolare; nell’ottobre dello stesso anno fu costituito un terzo squadrone. Questi reparti ebbero peraltro vita breve, poiché furono tutti compresi nello scioglimento dei Corpi volontari.
Garibaldi scese ancora in campo con i suoi volontari nel 1866 per la terza guerra di indipendenza. Di fronte a questa guerra l’atteggiamento di Garibaldi fu di assoluta e patriottica lealtà. Colui che quattro anni prima era stato preso a fucilate dai Bersaglieri regi sull’Aspromonte, non esitò a mettersi a disposizione del Governo del re che gli affidò il comando del costituendo Corpo dei Volontari. Il Generale accettò con orgoglio questo compito, dimenticando il passato e mettendosi all’opera con il consueto entusiasmo. I Volontari furono 30.000 e furono inquadrati in dieci reggimenti su cinque brigate. Sei reggimenti furono subito messi a disposizione di Garibaldi; gli altri quattro rimasero nei loro depositi in Puglia. Questi Volontari non portavano più la grigia uniforme dei Cacciatori delle Alpi ma la fiammante camicia rossa che si era coperta di gloria nell’Italia meridionale.
A questo Corpo di Volontari era stato assegnato un compito che poteva sembrare secondario, ma che poteva diventare importantissimo se la campagna avesse avuto una guida più razionale e più dinamica. Garibaldi con i suoi uomini avrebbe dovuto minacciare e possibilmente tagliare le comunicazioni tra Verona e il Tirolo, garantendo la sinistra delle forze schierate sul Mincio ed impedendo alle truppe austriache del Tirolo di accorrere sul teatro di guerra. Ma le forze e l’organizzazione dei garibaldini non erano pari all’importante compito ricevuto. All’apertura delle ostilità solo 6.000 volontari erano in efficienza; a questi, destinati ad operare in montagna, non erano state assegnate salmerie ed era stata data soltanto una batteria da montagna. Con i suoi 6.000 uomini e 6 cannoni Garibaldi doveva affrontare 16.000 austriaci sostenuti da 24 cannoni.
Dapprima non fu assegnata cavalleria alle forze di Garibaldi; soltanto dopo molte insistenze fu autorizzato a formare due squadroni di “Guide”.
Uno squadrone fu costituito nel mese di maggio a Monza, arruolando volontari con cavalli di proprietà con una forza di 166 uomini e 6 ufficiali; nel luglio fu aggiunto un altro squadrone. Il comando dei due squadroni fu affidato a Missori che ebbe il grado di colonnello. L’uniforme era costituita da un “dolman” grigio con alamari neri, pantaloni anch’essi grigi; unico segno “garibaldino”, la cravatta rossa. Le bardature e le buffetterie erano quelle della cavalleria regolare.
Garibaldi pose il suo Quartier Generale a Salò e dispose subito perché le truppe muovessero verso il Càffaro per passare le Giudicarie. L’avanzata verso il Tirolo dovette però essere fermata dopo la sconfitta subita dall’esercito a Custoza il 24 giungo. Ai volontari venne allora affidato il compito di coprire Brescia e l’alta Lombardia. Garibaldi vi provvide attraverso opportuni concentramenti delle sue forze e, ricevuti rinforzi, riprese il 1° luglio la marcia verso il Trentino. Dopo gli scontri di Monte Suello, dove il Generale venne ferito, e di Vezza d’Oglio, Garibaldi decise l’attuazione del suo piano: irrompere nel Trentino per le valli del Chiese e di Ledro e risalire le Giudicarie in direzione di Trento.
Il 13 luglio Garibaldi era a Storo, dopo aver fatto avanzare i suoi uomini per la val Chiese e la val d’Ampola. Dopo il vittorioso scontro di Condino, i garibaldini si impadronirono del forte di Ampola e, occupati anche gli sbocchi della Val di Ledro, Garibaldi fece occupare il paese di Bezzecca. E qui ebbe luogo la battaglia che fu l’unica vittoria degli italiani in campo aperto sugli Austriaci in tutta la terza guerra di indipendenza. Dapprima lo scontro fu favorevole agli austriaci che respinsero dall’abitato i soldati di Garibaldi, ma intervenne allora personalmente il Generale e, come sempre, la sua presenza e il suo esempio rovesciarono le sorti del combattimento, anche se, ancora sofferente per la ferita riportata a Monte Suello, Garibaldi doveva muoversi in carrozza e non poteva percorrere a cavallo la linea del fuoco. Egli diede subito gli ordini più appropriati in relazione al terreno della battaglia e soprattutto fece postare l’artiglieria nel luogo più opportuno, riconosciuto con un colpo d’occhio da maestro, per battere il nemico. Sostenuto dal fuoco d’artiglieria, un furioso contrattacco dei garibaldini scacciò gli Austriaci dal paese. Si apriva a Garibaldi la via di Trento. La sospensione delle ostilità, conseguenza dell’armistizio stipulato dai Prussiani all’insaputa dell’Italia, fermò la marcia garibaldina. All’ordine di sgombrare il Trentino, il Generale rispose con lo storico “Obbedisco”.
Durante la campagna del 1866 la cavalleria di Garibaldi non ebbe occasione di largo impiego come nel ’49 o nel ’59. Le sue “Guide” assegnate in piccoli reparti a ciascuna Brigata furono impiegate in servizi di perlustrazione, di scorta e di collegamento, assolti sempre brillantemente.
La campagna del 1866 fu l’ultima delle guerre di indipendenza, alle quali Garibaldi e i suoi volontari tanto avevano contribuito, e fra i combattenti garibaldini non ultimi furono per valore militare e spirito patriottico le “Guide” che a buon diritto possono iscrivere le loro campagne fra le pagine illustri nella storia della cavalleria italiana.
Da tutto quanto poi è stato scritto risulta l’intelligente impiego della cavalleria da parte di Garibaldi, specialmente nei servizi di avanscoperta e di sicurezza, e non si può evitare il confronto fra il metodo garibaldino con quello seguito dai generali nostri e stranieri nelle campagne del 1848, ’49 e ’59 e ’66. Questo paragone che torna tutto ad onore di Garibaldi, dimostra una volta di più quale incomparabile uomo di guerra egli sia stato.
Marziano Brignoli
(da “Le Carte Missori” a cura di Marziano Brignoli, Milano 1984)